È un'abitudine che mi fa sentire simile ai poveri cristi che rovistano nell'immondizia o a quelle donne anziane e randagie, non necessariamente sole, che danno da mangiare ai gatti di strada. Non so spiegare il perchè.
Mi viene in mente una scena, imprecisata nel tempo vago dei miei ricordi; una scena di normale e spietata povertà. Alle porte di una chiesa, dopo che gli sposi con tutto il loro seguito erano partiti verso il loro futuro e un ristorante prenotato, ho visto un uomo col maglione di lana dai gomiti consumati, in ginocchio. Rccoglieva quello stesso riso che agli sposi aveva augurato tanta fortuna. La felicità di alcuni è la disperazione di tanti altri. Non so spiegare il perchè.
Ho preso l'abitudine di raccogliere piante che qualcuno ha deciso di buttare via e lasciar morire. Se capita di imbattermi in rametti spezzati e gettati dal balcone di chissà quale piano, se noto vicino alla spazzatura una pianta sfiorita e abbandonata, un istinto che non so giustificare mi spinge a raccoglierli. Li porto a casa e cerco di rianimarli, fargli mettere nuove radici in un luogo diverso, in un altro contesto sotto lo stesso cielo.
L'ultima volta è stata in un cimitero di campagna, d'estate.
Ho sempre pensato che i fiori di plastica siano la decorazione più adatta ai letti di chi dorme in questi luoghi il suo beato sonno spensierato. Per questo il vaso buttato accanto ai rifiuti aveva attirato la mia attenzione: cosa ci faceva una pianta viva lì? Uno di quei vasi di plastica rosso mattone, reclinato come se dormisse anche lui. La piantina era sulla buona strada per diventare completamente secca di lì a qualche giorno. Spelacchiata, le foglie rimaste aggrappate ai ramoscelli si stavano accartocciando con lo sguardo rivolto verso le compagne già cadute e sparpagliate tutt'intorno. E cos'altro poteva fare un essere vivente lì, se non morire?
Decisi di strapparla a quel destino e alla bava scintillante di una lumaca venuta a darle l'estrema unzione. Un luogo diverso, la città; un contesto diverso, il davanzale di una finestra. Lo stesso cielo.
Non la curai in modo particolare, non cambiai il vaso di plastica rosso mattone né la terra, l'unica che quelle radici avessero conosciuto. L'acqua era tutto ciò di cui aveva bisogno. Osservavo i rami aperti in una specie di abbraccio disperato senza fine e pensavo a quelle vecchissime parole "Ciò che veramente serve per essere felici è facile a trovarsi. L'inutile è difficile". Sembra facile.
L'acqua. Non quella calcarea che i fortunati abitanti di questa città possono avere tutto l'anno col solo gesto di girare una manopola o alzando un più moderno miscelatore. Non questa, che ingiallisce le foglie e appesantisce la terra. Questo animo ingiallito che mi sento potrebbe dipendere proprio dal bere ogni giorno l'acqua di questa vita "civile".
Misi la pianta esposta ad un autunno generoso di pioggia. Un giorno dopo l'altro spuntavano un nuovo sole tra le antenne dei palazzi e nuove foglie sui rami mossi dal vento.
Ho passato mesi accanto a questa specie di Lazzaro vegetale. Un'indole abitudinaria mi porta a ripetere sempre gli stessi gesti legati agli stessi stati d'animo. Anche Lazzaro, perciò, si è accorta che il mio guardare dalla finestra è sintomo di un tormento, di un pensiero ricorrente che cerco di buttare fuori dai polmoni, come il fumo di sigaretta che accompagna questa scena. È forse sapendo tutto ciò che, nel mio inverno personale e del nostro calendario, questa vita di clorofilla ha deciso di fiorire. Per distrarmi da me. Per darmi sollievo, come è accaduto nel nostro primo incontro in quel cimitero d'estate, quando decisi di strapparla dal sonno dissetandola di vita nella pioggia.
Al verde scuro e ovale delle foglie si sono aggiunte punte candide, che si aprono lentamente in un tenero rosa. I petali frastagliati di un' azalea.