So che è dietro di me a qualche metro.
Non mi importa. Parlo con gli altri e cammino tranquilla. Ma so benissimo che sto fingendo, mi svelo voltandomi quasi ad ogni passo, apparentemente distratta, per controllare che sia sempre lì. All’improvviso un gruppo di persone ci viene incontro; passano oltre il gruppetto che mi accompagna e la mia sicurezza inizia a vacillare. Guardo dietro di me ancora una volta, l'ennesima, senza paura di mostrare ora il desiderio di sapere che è ancora lì.
Lui non c’è più.
Rincorro in ogni vicolo di pietra la sua ombra, ma non riesco a vederlo. Ho paura.
Una cabina del telefono… la sua voce suona lontanissima dall’altra parte, chissà dove: “Sono in carcere”. Senza rendermene conto mi ritrovo con la sua famiglia in una grande stanza vuota, aspettando che liberino lui o un altro detenuto: Gesù o Barabba? Attimi infiniti di attesa e poi, pezzi di una speranza in frantumi: la mia. Liberano l'altro, mentre io sto provando un senso di colpa sconfinato, perchè avevo sperato fino all'ultimo che il dolore della perdita toccasse a quei volti sconosciuti in attesa, come me, del verdetto. Il loro caro è libero; io non rivedrò più il mio.
In qualche modo sono riuscita ad avere il permesso di vederlo. Entro nel corridoio e resto ferma davanti alla porta della sua cella. No, un attimo…. non è più una porta… non è una cella...mi sto affacciando su un’apertura circolare, come l’oblò di una nave. Lui è in fondo ad una specie di pozzo che, dopo un cunicolo iniziale, sembra diventare una stanza più grande. E’ una prigione d’acqua.
Seduto sul pavimento, immerso, lui è lì che respira perfettamente a suo agio. Intravedo dall’alto un ginocchio accanto al suo: qualcuno gli è seduto poco distante a gambe incrociate. “Meno male”, penso, “non è solo”. Saperlo da solo è la cosa che più mi dà pena.
D'improvviso alza gli occhi, si è accorto della mia presenza muta. Mi ha sentita. I suoi occhi… Sta sorridendo. Mi chiedo perché stia sorridendo. Ha l’aria tranquilla, la solita, quella che non perde mai. E io, come al solito, non riesco a capirlo. Ma perché sta sorridendo?
So che devo aspettare che venga verso di me. Lo so per istinto, perchè non c'è nessun altro intormo a me in questo posto assurdo. Automaticamente, mentre lui sale io tendo una mano. Devo aspettare che arrivi quasi in superficie, lo so per istinto. Pochi centimetri .... ... Le nostre dita si incontrano in un velo d’acqua.
Non sento il contatto al toccarlo. Ora le nostre mani aderiscono perfettamente, palmo contro palmo, le linee della mia dentro le sue si sovrappongono, si intersecano, si misurano. E non sento il contatto. E’ toccare uno specchio, ma il viso che guardo non è il mio. E’ calmo e sorride, lui; io sono terrorizzata. Perché non sento le sue mani? Perché sta sorridendo?
Si stacca da me, come per lasciarsi cadere. Direi che sta annegando, anche se è già sott’acqua. Non so come, ma so che si sta annegando e sono ancora più disperata. Non lo vedo più. Appena un attimo, poi riappare. E’ vivo, non si è lasciato morire. E’ vivo e mi guarda sorridendo, tranquillo…
... E alla fine si era risvegliata.
In bocca, il sapore amaro non eraun ricordo dell'ultimo caffè serale, ma quello della consapevolezza. Finalmente, avrebbe pensato qualche attimo dopo, finalmente sembrava finita. E probabilmente quello era l'unico modo possibile, l'unica conclusione degna di questo nome e di quella storia. Le voci del loro ultimo incontro, insistenti dentro di lei, risuonavano indipendenti dalla sua volontà.
- … In realtà, volevo dirti una cosa, ma non so se è il momento.
- Dimmi …
- E’ che sei al lavoro. E poi così di fretta, ‘ste cose le odio…
- Dimmi.
- E tra poco è l’ora di pranzo e tu dovrai andare…
- Non vuoi più vedermi.
- Beh … non ha senso!
- Se non hai voglia di vedermi, allora non ha senso.
- No, forse non hai capito: IO HO VOGLIA DI VEDERTI. Ma così siamo da capo: non ricordi cosa c’eravamo detti? Ti sei scordato?
- Credevo ci avessi messo una pietra sopra…
- Una pietra sopra ai sentimenti?! Ma non basta una montagna!
- Questa della montagna mi ha fatto tenerezza…
- E’ che così non può andare. Non riesco a far finta di niente. Ce l’eravamo già detto, io ho dei sentimenti per te, non posso continuare come se non fosse successo niente. Come se non mi avessi detto che non sei innamorato di me.
- Non mi fa piacere non vederti.
- Nemmeno a me. Anzi, non lo voglio affatto. Ma se non provi niente per me è meglio che la finiamo qua.
- Ho capito. Non ti chiederò più di uscire.
- E poi, perché vuoi continuare a vedermi?
- Non ho un piano. Sto bene con te e basta.
- Sì, ma io sono molto a disagio e imbarazzata. Cosa siamo? Non siamo amici…
- Non ho una definizione precisa, se è questo che vuoi.
Definizione. Detta così -aveva pensato in quel momento- sembra che io abbia bisogno di un’etichetta adesiva da attaccare al barattolo che contiene i nostri volti. Che senza catalogare e incasellare ciò che sta accadendo, non sia capace di gestire le situazioni. Forse. Dare un nome è conoscere, è possedere. Vediamo se è una definizione che sto cercando: vorrei sapere se ho il diritto di innamorarmi di te. E perché mi sento un’intrusa nella tua vita. Vorrei sapere perché mi faccio mille scrupoli e perché mi trattengo se ho voglia di baciarti. Da cosa dipende il mio imbarazzo, quando siamo in silenzio. Perché non mi cerchi mai, se dici che sono speciale. Tra le infinite noie quotidiane, ti fermi un attimo a pensarmi? I miei occhi ti parlano? Se baci un’altra, senti la differenza con me? Come ti senti ora che non ci vedremo più?
Se è con un nome, uno stupido mucchietto di sillabe, che puoi spiegarmi questo, -continuava il pensiero- allora sì, è una definizione che sto aspettando. Dimmela, adesso. Dammi un inutile mucchietto di sillabe…
Ma quelle parole le erano rimaste intrappolate in gola.
Tutto finiva lì. Così, all'improvviso, proprio come un pugno al centro dello stomaco, era stata proprio quella la sensazione che aveva sentito in ogni fibra, in ogni osso, fino nel cuore dove tutto era iniziato. Sì, il cuore… le si era contratto di colpo, come un buco nero, una stella morente, annullando dentro di sé ogni altra sensazione tranne l'amarezza. Decise che non ci avrebbe più riprovato, non avrebbe più sopportato di vedere distrutta la sua speranza, la gioia dell'attesa, il suo ottimismo. Decise che non si sarebbe più affacciata alla porta della prigione d'acqua per incontrare quegli occhi e aspettare il calore delle sue dita. Quante volte non lo aveva sentito? Il velo d'acqua, si rese conto, era una barriera più insuperabile di una montagna, di un muro o di mille porte blindate.
Quanti conati d'amore inutili negli ultimi mesi.
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